I temi legati alla continuità aziendale e alla realizzazione di impairment test dell’avviamento stanno assumendo un’importanza sempre maggiore alla luce dell’inizio anche in Italia della fase post-pandemia di COVID-19, in cui la ripresa delle attività produttive si deve confrontare con un contesto di mercato e con sfide delicate e non ipotizzabili fino a pochi mesi fa.

Per approfondire questi argomenti e permettere ad alcuni fra gli esperti del settore di fornire la propria visione e i propri insight, Duff & Phelps, in collaborazione con ANDAF, ha organizzato il webcast “Continuità Aziendale e Impairment Test dell’avviamento nel contesto economico attuale condizionato dal COVID-19”.

Roberto Mannozzi, Presidente ANDAF e Head of Administration, Tax and Control, Gruppo FS, ha sottolineato l’importanza e la strategicità degli argomenti oggetto dell’incontro virtuale, anche alla luce delle recenti condizioni senza precedenti che le aziende si trovano ad affrontare su scala globale, dando rilievo a due principali aspetti da analizzare con la massima attenzione da parte di amministratori, management e organi di controllo: il presupposto della continuità aziendale, reso ancor più delicato in questo momento dalla emergenza COVID-19 e, strettamente correlato ad esso, la necessità da parte delle aziende di rileggere i propri business plan prospetticamente, provando a proiettarsi oltre le attuali difficoltà e rivedendo i piani industriali per valutare attentamente la sostenibilità dei propri asset.

Alberto Tron, Presidente del Comitato Tecnico ANDAF Financial Reporting Standard e Incaricato di Finanza Aziendale presso l’Università Bocconi di Milano, ha approfondito il tema della continuità aziendale, sottolineando: “In seguito alla diffusione della pandemia di Covid-19 e al successivo lockdown, stiamo affrontando la prima recessione globale dopo la Seconda guerra mondiale, che riguarda tutti i settori produttivi. In Italia, in particolare, il tessuto industriale è composto per circa il 95% da PMI e questo pone importanti problemi di liquidità, che, tipicamente, possono essere affrontati o con una ricapitalizzazione o con un ricorso all’indebitamento bancario.

In questo scenario, la continuità aziendale assume un ruolo determinante, dato che, per sua natura, è relativa alla possibilità per l’azienda di proseguire la sua attività nel corso dei successivi 12 mesi ed è quindi necessario che, ora più che mai, venga supportata da piani di business credibili e oggettivi basati, in particolare, sul fatto che la produzione abbia o meno possibilità di essere continuata proficuamente.

In questo contesto, assume un ruolo determinante il CFO, che deve essere in grado di dare il suo determinante contributo alla realizzazione, o all’adeguamento post-pandemia, di un business model e del correlato business plan che possa prevedere il mantenimento del funzionamento aziendale nel breve e nel medio termine. Nel breve termine sarà importantissimo che il CFO metta in campo tutti gli strumenti di monitoraggio del capitale circolante e di controllo di gestione onde garantire la sopravvivenza dell’impresa in un’ottica, almeno nel breve periodo, di resilienza.”

Guardando invece agli impatti sull’impairment test dell’avviamento, Enrico Rovere, Managing Director della divisione di Valuation Advisory di Duff & Phelps in Italia e Michela Morelli, Director di Duff & Phelps, hanno commentato: “Durante gli scorsi tre mesi, gli indici azionari sono stati pesantemente impattati dalla pandemia, che ha innescato una crisi la cui durata ed estensione resta al momento ignota.

In tale contesto l’utilizzo di multipli basati su risultati storici non sembra essere più affidabile e risulta quindi più appropriato utilizzare i multipli in versione “forward looking”, nei quali le proiezioni della Società potrebbero tenere conto di numerosi fattori impattati dal COVID-19, quali ad esempio l’interruzione di una filiera, una variazione della domanda o una perdita dei clienti. Inoltre, l’impatto sociale ed economico della crisi ha aumentato l’incertezza generale. Tutto questo ha un effetto negativo sulle prospettive e sulle valutazioni di un’impresa e sulle possibiltà di recupero dell’avviamento e di altri asset.

Uno studio che abbiamo condotto sull’andamento degli impairment test nei tre mercati di riferimento nel corso degli ultimi 10 anni, ha mostrato che negli USA il livello massimo si è raggiunto nel 2008, quando si sono verificati 502 eventi di impairment per un valore aggregato di 188 miliardi di dollari. È stato osservato che al culmine della crisi del debito sovrano in Europa, le società dello STOXX Europe 600 hanno raggiunto un elevato valore aggregato di impairment nel 2011 (77,2 miliardi di euro) e leggermente inferiore nel 2012 (66,4 miliardi di euro). Seguendo la stessa dinamica, anche in Italia si è registrato un valore aggregato di impairment di 36,9 miliardi di euro nel 2011, con 15 eventi di impairment. Le attuali condizioni di mercato, impattate dal Covid-19, segnano le premesse per un incremento di impairment nel 2020.”

Questo ultimo dato viene supportato dai risultati ottenuti da un instant poll su un campione qualificato di rappresentanti della financial community operanti a livello nazionale, interpellati durante il webinar. Il 58% dei rispondenti ha infatti indicato come sia possibile la necessità di un esercizio di Impairment Test nel corso del mese di giugno 2020.
Proseguono Rovere e Morelli: “Un elemento importante da considerare nella riconciliazione dei diversi concetti di valore che siamo chiamati a calcolare è la problematica delle asimmetrie informative, in particolare quanto delle strategie aziendali è pubblicamente conosciuto e quanto è solo condiviso all’interno dell’azienda. In un’ottica di impairment test in particolare, potrebbero riflettersi poi in stime di valore diverse per CGU ed aziende nel loro insieme. Inoltre, è importante considerare quali sono le informazioni conosciute e conoscibili e quali non conosciute al momento attuale.

Tra le informazioni conosciute ci sono infatti la diminuzione dei prezzi di mercato e dell’energia, la crisi di liquidità che molte aziende stanno affrontando, l’aumento dell’incertezza e del rischio e le politiche di stimoli finanziari e fiscali messe in campo da banche centrali e governi. Dall’altro lato, risultano attualmente non conosciute le tempistiche per lo sviluppo di una cura e di un vaccino anti COVID-19, la possibilità che si scateni una seconda ondata pandemica, il mantenimento delle misure restrittive e l’impatto reale delle misure di sostegno all’economia.. In questo scenario, è quindi fondamentale, al fine della determinazione del fair value, costruire un bridge fra questi due insiemi di informazioni, in modo da riuscire quanto più possibile a bilanciarle e attribuire il giusto peso in fase di stima del valore.

Un altro punto chiave nelle attività valutative in tempi di pandemia è quello della revisione dei piani economico-finanziari che coinvolge diversi aspetti: i ricavi, la supply chain e le operations, senza trascurare la parte patrimoniale, legata a possibili ritardi negli investimenti previsti e a dilazioni dei pagamenti e probabili effetti anche sui covenant finanziari. L’approccio che consigliamo di tenere nell’adeguamento dei piani è quello di prendere in considerazione diversi scenari e ponderarli secondo la loro probabilità di realizzazione, ottenendo quindi un valore atteso che rifletta le diverse possibilità del prossimo incerto futuro.”

L’importanza di questo aspetto è condivisa anche dalla maggioranza (il 54%) dei partecipanti all’instant poll, che ha dichiarato di aver fatto una revisione del budget 2020, mentre il 27% ha elaborato diversi scenari per valutare l’adeguamento dei piani.
“Un ultimo aspetto da considerare è quello relativo al calcolo del costo del capitale, nel quale occorre considerare in modo appropriato le sue componenti, quali il tasso di interesse privo di rischio (Risk Free rate), che suggeriamo di normalizzare, il premio per il rischio di mercato (Equity Risk Premium), che consigliamo di tenere intorno al 6% sul lungo termine e il premio rischio Paese (Country Risk Premium) per l’Italia, che calcoliamo essere al 30 giugno pari al 2,3%,” concludono i due esperti di Duff & Phelps.

I risultati dell’instant poll mostrano che, nel calcolo del costo del capitale, la maggioranza del campione (il 57%) utilizza la media dei titoli di Stato italiani per il tasso Risk Free e il 53% un Equity Risk Premium compreso tra il 5 e il 6%. Infine, se il 42% dei rispondenti include un rischio ulteriore nel calcolo del costo del capitale legato al Country Risk Premium relativo all’Italia, il 39% aggiunge anche uno Small Size Premium per riflettere meglio le caratteristiche del tessuto industriale del nostro Paese.